Una nuova lingua nel panorama epigrafico della Sicilia antica

Fenicio, Punico, Elimo, Siculo, Greco, Osco, Latino, Ebraico. Questa è la nostra lista di partenza delle lingue attestate dall’epigrafia nella Sicilia antica. A questo già ricco novero oggi dobbiamo aggiungere una nuova lingua. Si tratta della lingua libico-berbera o – piuttosto – del dialetto orientale di questa lingua che sembra potersi rintracciare in alcune delle numerose iscrizioni rinvenute nella elima Segesta, nel deposito di Grotta Vanella (sul deposito De Cesare, and Serra, 2012).

Posta sull’altura del Monte Barbaro, a pochi chilometri dalla polis di Selinunte e dalla fenicia Panormo (moderna Palermo, fig. 1), Segesta è stato uno dei più importanti insediamenti indigeni della Sicilia occidentale – la Sicilia elima, stando alla tradizionale divisione della Sicilia indigena in elima sicana e sicula.

Quando oggi si percorre la ripida strada che porta su una delle due sommità del Monte Barbaro ci si accorge subito della rilevanza del sito: nonostante ne siano visibili infatti solo le rovine, l’imponente (ma mai terminato) tempio in stile dorico, il teatro e ciò che rimane del bouleuterion e dell’agora – risalenti alla fase di maggiore monumentalizzazione del sito, avvenuta nella tarda età ellenistica – si mostrano come lo scheletro urbanistico di una polis fiorente e popolosa (per una passeggiata virtuale del parco archeologico di Segesta: Parco di Segesta). In età tardo arcaica questo centro godeva già di due o forse tre aree sacre: il santuario presso Contrada Mango (fig. 2), un tempio le cui fondazioni sono state rinvenute nei pressi dell’area del bouleuterion e una terza area santuariale posta sull’acropoli nord (fig. 3). Di quest’ultima oggi non resta nulla se non un enorme scarico di oggetti probabilmente preposti al culto e gettati, in una fase di rifacimento dell’acropoli, sulle pendici del Monte, nel recesso denominato oggi ‘Grotta Vanella’.

Probabilmente consistente in uno spazio aperto sul quale insistevano strutture lignee (vd. De Vido, c.d.s.), l’area in questione doveva essere uno dei più importanti centri cultuali della Sicilia tardo arcaica, preposto forse ad accogliere più divinità e certamente una divinità femminile, stando all’ampio campione di materiale relativo alla sfera femminile che lo scarico ha restituito (cf. Agostiniani, de Cesare, Enegren Landenius, 2014). Su ben 30.000 frammenti di vasi (soprattutto di importazione) e altro materiale (oggetti in osso, bronzo e figurine in terracotta) sono state rinvenute circa 442 iscrizioni, per la maggior parte pubblicate alla fine degli anni Settanta da Luciano Agostiniani (Iscrizioni anelleniche di Sicilia, vol.1). I documenti epigrafici, tutti molto frammentari – con l’eccezione di un unico vaso integro (ISic020283) – consistono in graffiti (effettuati dopo la cottura) su ceramica attica a figure nere o su ceramica locale (in minor numero) e sono databili tra la fine del VI secolo e l’inizio del V a.C. (sui supporti e la datazione Marchesini, 2012). Agostiniani ha ipotizzato che la maggior parte dei testi siano in lingua elima, una lingua italica attestata anche in altri centri della Sicilia occidentale, mentre alcuni di essi potrebbero essere in greco. Si tratta tuttavia di documenti talvolta talmente frammentari (fig. 4) che risulta difficile spesso determinarne la pertinenza linguistica.

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Fig. 3. Segesta, mappa archeologica del sito. La freccia indica il punto in cui si trova lo scarico di Grotta Vanella. Da Camerata Scovazzo, 1996

Nel corso del censimento dei graffiti all’interno del corpus di ISicily - nel quale adesso si trovano in formato di bozza – ristudiando questi frammenti alcuni in particolare hanno attratto la mia attenzione, ISic020288 (fig. 5) e 020307 (fig. 6), sia perché sono evidentemente stati incisi dalla stessa mano, sia per il grafema che sormonta l’iscrizione in ISic020307. Mi ero infatti di recente imbattuta nelle iscrizioni di Grotta Regina, una grotta che sovrasta la spiaggia di Mondello e nella quale probabilmente si trovava un santuario punico preposto, stando al testo delle iscrizioni rinvenute, al culto di divinità ctonie e legate alla fertilità. Tra le iscrizioni puniche e neopuniche rinvenute nella grotta Monsignor Benedetto Rocco aveva individuato delle iscrizioni libiche, probabilmente risalenti alla metà del III sec. a.C. (Rocco, 1974) sulle quali tuttavia servirebbe oggi un’indagine più approfondita. Mossa da quella che era solo una mia iniziale speculazione ho appreso che già Michel Lejeune nel 1969 (Lejeune, 1969) aveva ipotizzato un’origine libica per le due iscrizioni: si tratterebbe, in particolare, di due nomi libici (il primo non attestato epigraficamente ma ascrivibile all’onomastica libico-berbera e l’altro invece noto) trascritti in caratteri greci. In anni più recenti René Rebuffat (Rebuffat, 2008) ha confermato l’ipotesi di Lejeune aggiungendo nuovi elementi probanti all’indagine e leggendo come probabilmente libici altri frammenti provenienti da Grotta Vanella. In breve, quello che più attrasse l’attenzione di Lejeune, e poi di Rebuffat e che attrae la mia oggi è il grafema che in libico ha valore di ‘S’ (la cosiddetta clessidra, segno poco noto nell’epigrafia siciliana e non interpretato in quella elima, fig. 7) e che ha una funzione simile al genitivo di possesso all’interno del testo e/o a un segno di appartenenza se si trova isolato. Con la prima funzione appare ad esempio molto spesso nelle stele funerarie insieme al nesso BN-S = ‘tomba, monumento funebre di’ (fig. 8) o W-S = ‘figlio di’ o ancora MT-S = ‘sepoltura di’. Con il valore di segno di appartenenza a una data persona appare invece isolato, sormontante la stele (fig. 9-10), come se indicasse che la stele è del defunto riportato nel testo dell’epigrafe. Lo stesso valore, tanto più in presenza di un nome libico, sembra potersi ascrivere alla ‘clessidra’ che si trova sopra il nome citato, graffito in ISic020307 (fig. 6). Se così fosse sia il nome che l’uso del segno a clessidra indirizzerebbero verso il dialetto libico orientale, dell’area della Tunisia e del nord est dell’Algeria (fig. 11). Che si tratti allora di due dedicanti libici che si fecero redigere il testo da uno stesso officiante? Si tratta di un caso isolato o ci sono altri testi ascrivibili alla stessa lingua a Segesta e altrove in Sicilia? E chi erano questi libici: schiavi, mercenari (dell’Amilcare sconfitto a Imera?), avventurieri (categoria spesso sottovalutata nella mobilità a lungo raggio), mercanti? E quale/i divinità si officiavano sull’acropoli nord di Segesta? A tutte queste domande – o piuttosto ad alcune di esse – fornirò una risposta in un articolo di prossima pubblicazione. Certo è che non dovremmo sorprenderci di trovare indizi di frequentazioni nordafricane altre rispetto a quelle fenicio-puniche in Sicilia in età arcaica e tardo-arcaica, per di più nella parte occidentale dell’isola così vicina e intrecciata alle rotte africane. L’area settentrionale dell’Africa allora, popolata da genti diverse, nominate anche dalle fonti letterarie greche (si veda ad esempio il resoconto libico in Hdt. 4.167-181 in cui troviamo un vasto campionario di popolazioni - Adyrmachidai, Giligamai, Asbystai, Auschisai, Bacales, Nasamones, Psylloi, Garamantes, Macai, Gindanes, Lotofagoi, Machlyes, Ausees – elencate come nomadi della fascia costiera; o ancora, tra gli altri, Diod.Sic. 3.49.1) era una terra solo in parte sotto il dominio di Cartagine – che del resto aggiogò sotto di sé popolazioni culturalmente e anche linguisticamente diverse. Per quanto questo sia evidente dal punto di vista storico – com’è evidente che la Sicilia non era popolata solo da Greci – tendiamo inconsapevolmente a privilegiare la Storia dei più ‘noti’ dimenticando la grande ricchezza culturale e linguistica che doveva caratterizzare questa parte di Mediterraneo e associando, come in un corto circuito interpretativo, tutta l’Africa settentrionale alla sola Cartagine.

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Fig. 11. Principali siti di rinvenimento di iscrizioni in libico-berbero ‘orientale’.

Questa breve storia su un angolo della Sicilia, sulla quale c’è molto da raccontare, è cominciata da due malridotti frammenti di ceramica iscritta trovati in deposizione secondaria sulle pendici di un monte su cui fiorì un importante centro elimo. L’analisi particolareggiata di questi due testi ha aperto una prospettiva di scambi mobilità e reciproche influenze che prima sottovalutavamo per il periodo storico in questione. La mia ipotesi oggi è che troveremo altre lingue e certamente altre storie da raccontarvi molto presto…